Chi vi scrive utilizza computer Apple dalla fine degli anni '80. Lo devo anzitutto alla lungimiranza di mio padre che portò in casa uno dei primi modelli di mac Classic, dicendo: “questo è il futuro, comincia ad usarlo”. Rimasi subito estasiato dal modo in cui quel computer inghiottiva i floppy disk e dalla velocità che aveva nel lanciarli (niente in confronto al mio Amiga 500 Plus). Poi, di fronte c'era tutto un mondo nuovo: nessuna schermata da compilare, nessun codice da imparare, solo la curiosità di scoprire cosa si nascondeva in quel mondo di Menu e Finestre, che ben presto sarebbe diventato non “uno standard”, ma “lo standard”, qualcosa sempre avanti, difficile da raggiungere ed eguagliare. Ricordo la grande festa che accompagnò in casa l'arrivo del primo LC, era il 1991 e il colore si faceva strada. Di lì in avanti è solo storia, storia di fidati strumenti di lavoro, di oggetti di design di cui innamorarsi, mangiare con gli occhi. Ma non è sempre stato “tutto rose e fiori”. Prima eravamo in pochi, i centri assistenza Apple erano rari, ci trattavano come quelli che fanno 'Alternativa' o 'Ecologia' a scuola, al posto dell'ora di religione. Gli amichetti mi pigliavano in giro perché c'erano pochi videogiochi su Mac, ma coi computer si poteva fare qualcosa e soprattutto 'si capiva quello che si stava facendo'.
Oggi è tutto diverso, l'informatica con la -I maiuscola è storia collettiva ma la Mela c'ha messo del suo. Certo, Steve Jobs è un orfano ex-hippie che è diventato miliardario e a molti questa cosa dà un po' fastidio. Ma bisogna anche capire che chi fa impresa si assume un rischio, fa ricerca, ed i soldi sono uno dei motori di questa avventura. Certo, forse quando morirà Richard Stallman sarò più triste, ma adesso mi sento di augurare un buon trapasso al caro Steve.
Estratto dal documentario su Steve Jobs
Steve Jobs a Stanford